Dolore, punteggiatura e vasi di coccio.
(con una preghiera)
Non so perché ancora il solo vedere, anche durante il culto di domenica 30 gennaio, fotografie dei detenuti nei campi di concentramento e di sterminio nazisti, donne e uomini magri fino alle ossa, il filo spinato, le parole di un sopravvissuto, ricordare le crudeltà, gli esperimenti sui bambini, le vessazioni, la fame, le sofferenze, le file verso i forni crematori, il dolore che niente può giustificare, anche il solo leggerne dalle pagine di un libro o l’ascoltare le parole di Francesco Guccini de La canzone del bambino nel vento (Auschwitz) eseguita dai Nomadi, non so perché ancora, non una sola volta all’anno, ma tutto l’anno, tutti gli anni, da sempre, non so perché tutto questo sempre mi faccia venire i brividi, mi stringa il cuore di dolore, perché debba stentare a trattenere le lacrime.
Eppure, ragionando, sono passati tanti tanti anni.
Eppure non posso fare più niente per loro.
Eppure non è colpa mia, io non c’ero.
Eppure credo che il solo fatto di essere come loro, come i nazisti, una creatura umana, non mi renda moralmente responsabile.
E per di più, a distanza di tanto tempo, non solo non so perché, ma non capisco ancora bene per chi piango, se per le vittime di quelle tragedie oppure per coloro che le hanno commesse, o per entrambi, oppure per il solo fatto che vicende simili si siano potute verificare.
Forse il fatto è che quella che sento come una ferita non si è mai potuta rimarginare, perché l’odio, la violenza, il razzismo, l’omofobia, non sono finiti con quella pagina della storia. Come un fiume carsico che da oscure caverne sotterranee emerge qua e là in superficie quasi fosse un normale corso d’acqua.
Non so perché pochi giorni prima del Giorno della Memoria quelle due ragazzine abbiano picchiato un loro quasi coetaneo “colpevole” di essere figlio di un ebreo, accompagnando alla violenza frasi come “sporco ebreo, devi morire nel forno”.
Non so chi e perché abbia potuto insegnare loro quella violenza, mettere in bocca quelle parole.
Sono parole che non ammettono repliche, che non consentono dialogo.
Sono frasi che si concludono con un punto a capo, definitivo. Non si immaginano punti di sospensione, che perlomeno inviterebbero alla riflessione sia chi le pronuncia che chi le ascolta.
Sono frasi che non includono un dubbio, un punto interrogativo, ma un feroce punto esclamativo.
Un ragazzino, come una qualsiasi altra vittima di violenza, fisica, verbale o psicologica, in mezzo a tali punti esclamativi, deve sentirsi come percepisce se stesso il buon don Abbondio nei Promessi Sposi: “un vaso di terra cotta, costretto a viaggiar in compagnia di molti vasi di ferro”.
E del resto purtroppo quello delle due ragazzine non è che un episodio tra le frequenti manifestazioni di odio, di violenza.
Il fiume carsico dell’odio e della violenza riemerge nei respingimenti dei migranti, nelle violenze all’interno delle case, in certe manifestazioni di piazza, negli insulti razzisti degli stadi, nel bullismo, nelle azioni di mafia … con quanti vasi di ferro siamo costretti a viaggiare in questo nostro percorso terreno, tra egoismi, prepotenze, interessi economici, volontà di guerra.
E a farne le spese sono tutti coloro che rischiano di restarne frantumati, i vasi di coccio sono tutti i poveri della terra, le vittime militari e civili delle guerre, i vecchi e i nuovi schiavi, i profughi, i migranti, i morti e i feriti sul lavoro, gli sfruttati nelle campagne, i senza tetto, i deboli, i malati, gli alcolisti, i tossicodipendenti, gli emarginati, gli umili, tutti coloro la cui esistenza, la cui dignità, le cui condizioni di vita e di morte vengono determinate dagli interessi di quei solidi, indistruttibili, inattaccabili vasi di ferro.
Certamente c’è chi ambisce a diventare, o a rimanere se lo è già, un inattaccabile vaso di ferro, ma per quanto mi riguarda il mio stesso rubare spazio e tempo a chi legge queste parole, esprimendo emozioni, pensieri, dubbi, il preferire i punti interrogativi agli esclamativi, in qualche modo rivela la mia natura di vaso di coccio, esposto ai colpi, vulnerabile, frangibile, ovviamente fallibile.
Per questo vorrei rivolgere una preghiera a te, Signore, a te che sei venuto a noi in fattezze di fragile uomo, “non per essere servito ma per servire e per dare la sua vita”, che ti sei assoggettato alle violenze, al tradimento, forse alle delusioni, tu che hai affrontato la sofferenza, l’agonia, il dolore della crocifissione, tu che ci hai insegnato non solo la risposta non-violenta ai nostri nemici, ma anche la capacità di amarli, di offrire l’altra guancia, e soprattutto a pregare per coloro che ci trattano male, perché attraverso il nostro amore anche loro possano ravvedersi.
La preghiera che ti rivolgo è: fa’ che io non possa mai diventare un vaso di ferro, non voglio essere o diventare duro, infrangibile, insensibile ai colpi. Ancor meno vorrei essere la causa di danni ai vasi più fragili.
Fammi sempre restare un vaso di coccio, magari qua e là un po’ sbeccato, lineato per qualche caduta o anche un po’ ciaccato da colpi altrui, ma nel quale se vorrai potrai far sì che possa continuare a germogliare, a crescere e a fiorire la vita e l’amore.